15 - 16 - 17 aprile
ORE 21:00
Regia di Paolo Valerio
Sior Todero Brontolon
Prima regionale
di Carlo Goldoni
con Franco Branciaroli
drammaturgia: Piermario Vescovo
altri interpreti: Piergiorgio Fasolo, Alessandro Albertin, Maria Grazia Plos, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Valentina Violo, Emanuele Fortunati, Andrea Germani, Roberta Colacino
in collaborazione con i Piccoli di Podrecca
scene: Marta Crisolini Malatesta
costumi: Stefano Nicolao
luci: Gigi Saccomandi
musiche: Antonio Di Pofi
movimenti di scena: Monica Codena
produzione: Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro de gli Incamminati, Centro Teatrale Bresciano
foto: Simone Di Luca
“Quale maggior disgrazia per un uomo, che rendersi l’odio del pubblico, il flagello della famiglia, il ridicolo della servitù? Eppure non è il mio Todero un carattere immaginario. Purtroppo vi sono al mondo di quelli che lo somigliano; e in tempo che rappresentavasi questa commedia, intesi nominare più e più originali, dai quali credevano ch’io lo avessi copiato”.
Anche oggi non è raro incappare in un “brontolòn” come il Todero di Carlo Goldoni che precedeva la commedia racchiudendo queste riflessioni ne “L’autore a chi legge” e si stupiva di come un lavoro incentrato su un personaggio tanto odioso e negativo potesse aver ricevuto dal pubblico un tale successo. “Sior Todero brontolòn” scritta nel 1761 e presentata al Teatro San Luca di Venezia l’anno successivo, fu infatti accolta con molto calore, ripresa per 10 repliche a gennaio e poi nuovamente a febbraio, a ottobre…
Sior Todero risponde − come carattere − al modello dei rusteghi, ma dei quattro burberi veneziani perde qualsiasi accento bonario. La trama lo vuole avaro, imperioso, irritante con la servitù, opprimente con il figlio e la nipote, diffidente e permaloso verso il mondo. Sembrerebbe impossibile empatizzare con una simile figura.
Eppure il capolavoro di Goldoni − e la figura di Todero, scritta in modo magistrale − sono stati molto ambiti dai teatri e dai più grandi attori, da Cesco Baseggio, a Giulio Bosetti, a Gastone Moschin.
Ora questo indifendibile “brontolòn” attira un maestro del palcoscenico contemporaneo come Franco Branciaroli, che − diretto da Paolo Valerio − ne offrirà una nuova straordinaria e inaspettata interpretazione.
Dopo l’originale e dissacrante interpretazione di Shylock nel “Mercante di Venezia” shakespeariano, Paolo Valerio e Franco Branciaroli si apprestano a stupire il pubblico con la rilettura di un classico del teatro italiano, che molto ancora può suggerire alla sensibilità contemporanea.
Basti pensare − a fronte di una figura di protagonista tanto imponente e attrattiva − al ruolo sottile e risolutivo che Goldoni affida, nella commedia, al mondo femminile, l’unico che nello sviluppo drammaturgico appare pienamente positivo: sarà l’alleanza fra la coraggiosa nuora del vecchio avaro e l’intelligente vedova Fortunata a salvare la giovane Zanetta da un matrimonio impostole per mero interesse e foriero di infelicità. Sarà riconsegnata all’amore generoso e vero in un finale che − in tempi in cui il concetto di “patriarcato” domina le nostre cronache nelle sue accezioni più distorte e plumbee − intreccia in prospettiva, alla gioiosità della risoluzione, una venatura di turbamento.
Come ricostruire oggi quel sapere collettivo che esonerava il poeta tragico dal dover volgere in prosa il mito e lo legittimava a sollecitare immediate visioni nel pubblico?
Come compiere il tragico oggi? Quale linguaggio è, ciò che tramite Sofocle, vogliamo dire allo spettatore? E in quale lingua?
Il greco di Sofocle era volutamente alto e musicale, una lingua che ci strappa dal piano di realtà e ci pone su un livello di trascendenza.
Come consegnare al pubblico la drammatizzazione perfetta del mito perfetto in una lingua non ostile e concettuale ma musicale, istintiva e sensuale?
L’italiano sembra abbassare il tragico a un fatto drammatico.
Abbiamo perciò scelto il grecanico, lingua che ancora oggi risuona in un angolo remoto di quella che fu la Magna Grecia, una striscia di terra che dal mare si arrampica sull’Aspromonte scrutando all’orizzonte l’Etna.
Vestigia sonore di un antico greco oggi parlato da pochi individui figli di una generazione che aveva vergogna della lingua di Omero e ha smesso di insegnarla ai figli, per concedersi la speranza di un futuro migliore, in una società in cui la lingua dei poeti è stata scalzata da quella della televisione.
Un idioma antichissimo sporcato da lingue piovute dall’alto e da dialetti subalterni cresciuti spontanei nel campo sublime seminato dai greci come il calabro e il pugliese. La tragedia di Edipo è ambientata in una città ridotta al lumicino, arida, sterile, in decomposizione. Eppure Sofocle guida lo spettatore verso una luce interiore che si manifesterà a Colono, nel bosco sacro in cui Edipo verrà letteralmente assorbito dagli dei.
Dopo il Mercante di Venezia, Franco Branciaroli ritorna con un grande testo della tradizione goldoniana al Teatro Chiabrera
RAJEEV BADHAN, Direttore Teatro Chiabrera